Il delitto tentato

Tentativo

Cos’è il delitto tentato? Cosa significa Tentativo ? Che significa idoneità e univocità degli atti? Quali sono le pene? Scopriamolo assieme

Il delitto tentato si ha quando un soggetto vuole compiere un reato e si attiva in tal senso, senza però realizzare il proposito criminoso per cause indipendenti dalla propria volontà.

Il tentativo è un qualcosa di meno grave rispetto al delitto consumato, in quanto, con quest’ultimo, si ha una lesione effettiva dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, mentre nel tentativo si ha solo una lesione potenziale. Ciò giustifica sul piano sanzionatorio un trattamento meno severo del tentativo rispetto al delitto consumato.

Sul piano normativo, invece, il tentativo costituisce un titolo autonomo di reato rispetto al delitto consumato: esso è specificatamente previsto e sanzionato dalla legge e costituisce in sè e per sé un reato perfetto dotato dell’elemento oggettivo, dell’antigiuridicità e dell’elemento soggettivo.

Quindi, ad esempio, se con la medesima azione criminosa si compiono un furto ed un furto tentato, il reo soggiacerà a due pene distinte e separate.

L’art. 56 del codice penale, stabilisce che “chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”

Da tale definizione deriva che i requisiti del tentativo sono due:

1) l’intenzione di commettere un determinato delitto, ovvero che l’intenzione del soggetto venga manifestata all’esterno col compimento di atti idonei diretti a commettere il delitto

2) il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco alla commissione del delitto stesso e cioè : a) l’idoneità degli atti; b) l’univocità degli atti; c) il mancato compiersi dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente.

L’idoneità e l’univocità degli atti

Per accertare l’univocità degli atti è necessario come primo requisito, tramite qualsiasi mezzo, determinare l’intenzione criminosa.

In particolare sono univoci quegli atti che, per il grado di sviluppo raggiunto dalla condotta criminosa, lasciano prevedere come verosimile la realizzazione del delitto voluto.

Il secondo requisito da accertare per la configurabilità del tentativo è l’idoneità degli atti.

Sono idonei tutti quegli atti che consentirebbero la realizzazione del delitto da porre in essere. Il parametro di accertamento di tale elemento si fonda su un giudizio prognostico in relazione al caso concreto e non in astratto: il giudice deve cioè collocarsi nella medesima posizione dell’agente all’inizio dell’attività delittuosa e valutare, in base alle conoscenze dell’uomo medio, se gli atti posti in essere erano in grado di realizzare il reato oppure no.

Ad esempio un fiammifero acceso in sé e per sé non è mezzo idoneo a compiere un reato ma può esserlo se acceso vicino ad una tanica di benzina.

Sulla scorta di tali argomentazioni bisogna peraltro rilevare come in tema di tentativo “l’idoneità degli atti non va valutata con riferimento ad un criterio probabilistico di realizzazione dell’intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l’agente si propone, configurandosi invece un reato impossibile per inidoneità degli atti, ai sensi dell’art. 49 cod. pen., in presenza di un’inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato che sia assoluta e indipendente da cause estranee ed estrinseche, di modo che l’azione, valutata “ex ante” e in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall’agente, risulti del tutto priva della capacità di attuare il proposito criminoso” (Cass. Sez VI 06.02.2018 n.17988).

L’elemento soggettivo nel tentativo

Il tentativo è punibile solo a titolo di dolo e non di colpa, poiché manca la previsione espressa della punibilità colposa richiesta dal terzo comma dell’art. 42 c.p.

In realtà ciò che solleva dubbi è la configurabilità del c.d. dolo eventuale nel delitto tentato, cioè dolo il soggetto, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta e, nonostante ciò, agisca lo stesso accettando il rischio di cagionarla.

Sul punto esistono diversi contrasti in dottrina sulla configurabilità o meno di tale aspetto. Se da un lato la Cassazione a Sezioni Unite avevano sostenuto l’ammissibilità nel tentativo sia del dolo indiretto che del dolo eventuale (cfr. Cass. Sez. Un 18-6-1983) più di recente le varie sezioni della stessa Cassazione si sono sempre più spesso allontanate da tale principio di diritto , sostenendo l’incompatibilità fra tentativo e dolo indiretto o eventuale (così Cass. 20-10-1986, 23-10-1989, 22-10-1990, 20-11-1993).

Del resto la giurisprudenza di legittimità ha più volte rammentato che “per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti veri esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che , pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente , avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l’azione abbia significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo” ( si veda Cass. sez. II 11.01.2018 n. 30346).

La pena nel tentativo

Le pene per il delitto tentato sono ovviamente più lievi rispetto a quello consumato, infatti in base all’art. 56 comma 2° al tentativo si applica: a) la reclusione non inferiore a 12 anni, se per il reato consumato è stabilito l’ergastolo; b) la pena diminuita da 1/3 a 2/3 negli altri casi.

Per quanto attiene le circostanze, si rileva che tutte vanno a carico o a favore dell’autore del tentativo, escluse quelle che rappresentano un attività che neppure in parte è stata posta in esecuzione e quelle che, per natura, presuppongono necessariamente l’avvenuta consumazione del reato.

La desistenza volontaria

Un caso particolare è la c.d. desistenza volontaria ipotesi prevista dal comma 3 dell’art. 56 c.p. che ove realizzata comporterebbe la non punibilità dei fatti commessi.

Tale norma fissa la regola in base alla quale il colpevole, se volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per sé un reato diverso.

Per quanto riguarda i presupposti in base ai quali si può configurare la desistenza volontaria, si ritiene, sotto il profilo oggettivo, che l’azione debba consistere in un arresto della condotta prima che questa abbia esaurito il suo iter esecutivo, mentre sotto il profilo soggettivo, è necessario che la desistenza sia volontaria.

Bisogna comunque precisare che la “volontarietà” non deve essere confusa con “spontaneità” nel senso che la desistenza è volontaria anche quando non è spontanea perché indotta da ragioni utilitaristiche o da considerazioni dirette ad evitare un male ipotizzabile, ovvero dalla presa di coscienza degli svantaggi che potrebbero derivare dal proseguimento dell’azione criminosa.

Ciò vuol dire che l’accertamento in concreto del requisito della volontarietà deve prescindere dal giudizio sulla meritevolezza dei motivi che inducano l’agente a mutare proposito.

In pratica la rinuncia non deve essere un autentico ravvedimento o pentimento dell’azione, ma semplicemente la scelta del soggetto non deve essere imposta da circostanze esterne che obiettivamente impediscano la consumazione del delitto.

La desistenza volontaria è quindi configurata come un’esimente che esclude l’antigiuridicità del fatto, pertanto la sua riconducibilità alla volontà dell’agente e non a fattori esterni del mancato compimento dell’azione , qualora non risulti chiaramente dagli atti, va dimostrata da chi la invoca.

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